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Sestu (storicamente incluso nella Baronia di San Michele) è situato geograficamente nel Campidano di Cagliari, cioè in un’area demologica nella quale si rileva un’uniformità nell’abbigliamento tradizionale, e perciò classificabile come tipologico campidanese.
A Sestu la data di cessazione dell’abbigliamento tradizionale (festivo) dall’uso corrente può essere collocata, grosso modo, negli anni trenta del secolo scorso. Questo processo di abbandono si era già manifestato molto tempo prima in ambito maschile e poi, seppure in modo più lento, in quello femminile, con resistenze più evidenti nelle donne di classe d’età più elevata rispetto a quelle giovanili, che recepivano invece le influenze della moda cittadina.
Nel periodo successivo all’abbandono la possibilità di indossare vesti tradizionali era collegata alla partecipazione di gruppi spontanei o di persone alle sagre paesane e alla festa di Sant’Efisio, come dimostrano certe foto d’epoca.
Dai primi anni sessanta invece, sono stati i due gruppi folk ancora esistenti in paese a rappresentare in diverse manifestazioni civili e religiose le essenzialità del vestiario tradizionale sestese, in funzione di una presunta espressione delle antiche tradizioni locali.
Con l’incedere degli studi sulla storia e le tradizioni popolari sestesi e quindi, anche dell’abbigliamento tradizionale, tesi ad avere una miglior conoscenza della vicenda identitaria locale, ci si è resi conto che uno dei limiti più significativi che i gruppi folk manifestavano era costituito dall’adozione di un costume ricostruito con dettami non rigorosamente scientifici, adattato a esigenze di scena. L’esibizione di un unico costume, identico per tutti i componenti quasi fosse una divisa, ne è un esempio palese, anche perché l’uniformità della tipologia ha prodotto convinzioni inesatte su coloro che ne hanno preso visione nelle varie occasioni in cui è stato mostrato.
Negli anni ottanta, ciò ha spinto ad avviare ulteriori ricerche al riguardo. A prima vista però la raccolta documentaria non è stata facile da reperire perché:
• le fonti letterarie e iconografiche esistenti non evidenziavano note specifiche sul vestiario sestese;
• le fonti presenti a livello locale erano esigue;
• le vesti originali rimaste non erano molto consistenti come in altri centri per l’usanza:
1. di farsi seppellire con l’abito nuziale e/o festivo;
2. di riciclare le vecchie stoffe per altri usi;
3. per le perdite di capi subite durante l’alluvione del 1946.
Il metodo di studio si è basato innanzi tutto sulle testimonianze degli anziani del paese, che hanno permesso di raccogliere preziose informazioni per recuperare sia:
• capi di abbigliamento ancora esistenti in loco (risalenti quasi tutti ai primi 30 - 40 anni del 1900);
• documenti fotografici con persone vestite in abiti tradizionali, che hanno dato ragguagli sulle fogge in uso a Sestu nel periodo compreso tra la seconda metà del 1800 e il primo quarantennio del 1900, confermati peraltro anche da un documento comunale del 1937 che così descrive il vestiario popolare sestese.
Per le donne il costume era di due specie, quello delle abbienti consistente in: una gonna di stoffa rossa a pieghette (bordau); sopra un lungo grembiule di seta operata; il giacco alla vita detto: spenso, di seta o broccato ricamato di vari colori, un pò scollato in modo da permettere che si vedesse lo sparato della camicia, ricco di merletti lavorati a mano, ricamato in oro nel petto e nelle maniche. In testa un fazzoletto di seta operata, bianco per le ragazze non sposate, e di vari colori per le donne maritate; su di esso uno scialle di tibet o seta ricamati. Le donne indossavano nei giorni festivi uno o due medaglioni d’oro. Le donne meno abbienti avevano lo stesso costume con stoffe di minor prezzo.
Gli uomini indossavano pantaloni di lino bianco larghissimi e corti alle ginocchia, con uose di orbace nero, e sovrapposto pantaloncino corto nero, di stoffa finissima, o di velluto o di orbace; il corpetto con due righe di bottoni d’argento o d’oro; la giacca lunga, di panno nero finissimo, o velluto; la camicia di lino bianco con lo sparato e il collo alto, ricamati a mano e chiusa con bottoni d’oro o d’argento a boccia. In testa una lunga berritta nera. I meno abbienti avevano gli stessi abiti in orbace, senza bottoni d’oro.
Lo studio delle antiche fonti bibliografiche e iconografiche e dei reperti esposti nei musei ha consentito poi di tracciare delle comparazioni con le tipologie di abbigliamento in uso anche nei paesi contermini e viciniori del Campidano di Cagliari, confortando per certi versi la ricerca proprio in funzione della succitata uniformità dei vestiari utilizzati in questa area demologica, poiché è identica l’architettura di base mentre le differenze tra paesi sono correlate a semplici dettagli.
La documentazione rinvenuta negli archivi storici di Sestu e Cagliari ha infine consentito di ottenere, grazie allo studio di atti notarili, della Segreteria di Stato, della Reale Udienza, del Tribunale di Cagliari e di altri materiali ecclesiastici, altre informazioni sul vestiario maschile e femminile in uso nel periodo compreso tra la seconda metà del Settecento e la prima dell’Ottocento. Infatti, l’analisi degli atti testamentari, delle donazioni matrimoniali e delle cause civili, penali e
criminali hanno permesso di capire che all’interno della comunità non erano in uso vesti perfettamente identiche per tutti, ma c’erano una serie di varianti legate alle occasioni, all’età, al gusto personale e allo status sociale dei possessori, ovvero una serie più o meno nutrita di abiti destinati a diverse opportunità e tra questi, quelli di gala erano d’uso eccezionale.
Al riguardo, gli atti archivistici, spesso molto precisi nel descrivere indumenti, tessuti e colori preferiti, consentono di tracciare un quadro abbastanza interessante del fenomeno, e di conoscere certi aspetti finora ignoti o supposti come ad esempio l’attestazione della velada a Sestu, in abbinamento con gonne di broccato e non, già da fine seicento inizi settecento, l’uso di cuffie di vario genere e di gonne e giacchini di sajale rosso prima dell’introduzione delle indiane e del bordau, la dote di vari gioielli in abbinamento agli abiti ed inoltre, l’uso di una pelle che solevano portare i contadini sopra gli abiti durante il lavoro o ancora, l’uso ricorrente di cappotti, gabbani, gabbanelle e saccus de coberri durante le bardane e ruberie, che coi loro ampi cappucci celavano la fisionomia dei malviventi nell’oscurità della notte.
In conclusione, queste informazioni hanno consentito di:
• affermare che comunque a Sestu non esisteva un solo costume locale, ma diversi modelli di vestiario a cui generalmente si faceva riferimento. All’interno di questi modelli agivano diverse spinte correlate all’evolversi della moda, al gusto collettivo, all’estro personale, alle occasioni, alle possibilità economiche e alle gerarchie sociali che regolavano la vita della comunità e avevano influenza sui modi di vestirsi di ogni persona.
• l’avvio di un progetto culturale teso al recupero di talune forme di vestiario locale, che ha portato all’allestimento di una mostra sull’abbigliamento popolare sestese a settembre del 2009, curata dalla Pro Loco e dall’Amministrazione Comunale. E ciò con l’intento di ricostruire anche fattivamente sia le tipologie più conosciute e
recenti, sia quelle più antiche descritte nei documenti archivistici, in modo da codificarle e identificarle uniformemente all’interno della comunità.
Al di la dei facili entusiasmi però, l’attuazione di un simile progetto comporta in ogni caso alcune incognite di merito correlate alla corretta fattibilità del medesimo, in quanto senza un appropriato criterio metodologico, supportato anche dal conforto di affermate professionalità nel campo, il rischio è che si possano innescare discutibili quanto fuorvianti ricostruzioni, sia con l’utilizzo di tessuti inadatti e/o comunque dozzinali, sia con la realizzazione di fogge non del tutto corrispondenti alla realtà locale del tempo. E allora per ovviare a queste eventualità sarà necessario riflettere più attentamente sulle eventuali soluzioni da percorrere onde evitare ineluttabili errori.
Testo a cura di Roberto Bullita
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