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San Salvatore
A Sestu il 6 Agosto si festeggia la Trasfigurazione del Santissimo Salvatore, più conosciuta in paese come sa festa de Santu Srabadori.
Attualmente i festeggiamenti in onore del Santo sono molto diversi rispetto al passato perché, col passare degli anni, il progresso tecnologico, con le inarrestabili trasformazioni introdotte in campo sociale ed economico, unitamente al consumismo imperversante, hanno trasformato profondamente il tessuto della società tradizionale. Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, infatti, per San Salvatore era ancora possibile vedere i contadini che, dopo aver ultimato i lavori residui legati alla mietitura, lasciavano appositamente is castius de is argiolas (le aie) per tornare in paese a venerare il Santo e far festa in piazza con gli altri compaesani.
Oggi, invece, per San Salvatore molta gente è assente perché ad agosto in tanti vanno in ferie al mare, o in montagna. Di coloro che restano, solo le generazioni meno giovani seguono con sentita devozione i precetti tradizionali dell'antica festa, mentre gli altri cercano il divertimento altrove. […]
In passato, innanzitutto, le celebrazioni religiose incominciavano nove giorni prima della ricorrenza del 6 agosto, con le novene in onore del Santo, così come avviene ancora oggi. I fedeli, pertanto, ogni sera si radunavano all'interno della chiesa (attualmente la gente si raccoglie fuori per questioni di spazio) e sotto la guida del prete recitavano in coro il Rosario.
Alla fine la funzione si concludeva solennemente con il canto dei goccius a San Salvatore.
Nel frattempo, qualche giorno prima della festa, gli uomini provvedevano al taglio del mirto necessario a inghirlandare la facciata principale della chiesa e sopra l'arco d'ingresso veniva sistemata una grande croce, sempre confezionata con dei ramoscelli di mirto.
Alle donne, invece, spettava l'onere di cucire le bandierine colorate, che venivano appese nella piazza e in tutto il vicinato, mentre le ragazze preparavano i mazzolini di fiori (buchetus), che era usanza deporre ai piedi della statua del Santo.
Il giorno della vigilia della festa l'intero quartiere, già dalle prime luci dell'alba, si animava per l'arrivo dei venditori ambulanti. Questi, con i loro carri stracarichi di merce, cercavano di arrivare di primo mattino in paese, per accaparrarsi un buon posto dove poter allestire is paradas, ossia le bancarelle.
In mattinata i bambini del vicinato, scalzi e mal vestiti, uscivano dalle case e con il loro allegro vociare si aggiravano a curiosare tra i venditori indaffarati, sperando di poter racimolare una fetta d'anguria, oppure qualche ghiottoneria per l'ora della festa.
Gli uomini, invece, preparavano la buca per issare l'albero della cuccagna, su pinnìoni, che veniva colto il giorno vero e proprio della festa.
Nel tardo pomeriggio le donne, armate di apposite scope fatte con ramoscelli secchi di cadùmbulu o di arrideli, scopavano accuratamente la piazza e intorno alla chiesa per ripulire dalla sporcizia accumulatasi durante il giorno. Poi, con l’acqua attinta dai pozzi innaffiavano il terreno per eliminare la polvere e raffrescare l'ambiente. La sera, dopo l'ultima novena, il suono frenetico della campana e lo scoppio dei razzi (guettus), segnavano l'inizio de sa solidadi e quindi, della festa. A quel punto le bancarelle erano già pronte con i torroni, le noci, nocciole, ceci, mostaccioli e altri dolciumi. Altre bancate, invece, erano adorne di utensili da lavoro: palias de argiolas, fruconis disculas po fai casu, pittailus, arrasolas e di altri attrezzi domestici in legno e in vimini: palías de forru, turas, talleris, fruchitas e culleras, sedatzus, cilirius e crobis.
Dal primo Novecento alle bancarelle, illuminate durante la notte dalle lampade a carburo, si aggiunsero anche i venditori ambulanti di carapigna e i vari prestigiatori e giocolieri. Molti anziani ricordano ancora oggi tziu Papastrillu, che con i suoi giochetti divertiva gli adulti e i bambini che gremivano la piazza durante la festa. E senz'altro non potevano dimenticarsi neppure di un certo tziu Vittoriu, che, per un soldo, con le sue carapigne e granatine colorate addolciva e raffrescava il palato di tante persone. Est arribau tziu Vittoriu, su bobboi s'at portau. Ahhi, sa carapigna, così gridava questo ambulante cagliaritano sponsorizzando il suo prodotto.
Da un documento conservato all'Archivio di Stato di Cagliari, inoltre, abbiano notizia che nei primi decenni dell'Ottocento, la notte della vigilia della festa di San Salvatore, era costume accendere un fuoco festivo nei pressi della chiesa, intorno al quale la gente si intratteneva ad ascoltare i canti e a divertirsi presso le parate degli ambulanti dislocate in piazza.
Non di meno, durante questi intrattenimenti succedevano anche degli spiacevoli inconvenienti che certe volte finivano per turbare il regolare svolgimento della festa. La notte del 5 agosto 1829, ad esempio, due giovani: Sisinnio Serci e Sisinnio Ibba (soprannominato Gregu), stavano seduti per terra, accanto al fuoco festivo che era stato acceso presso la chiesa, entrambi con una lunga canna tra le gambe. Poco distante da loro, un altro giovane sestese di nome Efisio Piga, ascoltava divertito le canzoni che si stavano cantando presso le parate dei dolci. Questi, quando decise di tornare da sua madre (che nel frattempo stava seduta in un angolo del piazzale) passò accanto al falò, dove c'erano accovacciati Serci e Ibba, ognuno con una lunga canna in mano.
I due, alla vista del giovane vestito alla foggia dei rigattieri di Cagliari (perché da anni lavorava in Città), misero di traverso le proprie canne con l'intenzione di farlo cadere a terra. Alla fine il Piga, dopo aver inciampato sulla prima canna, raccolse quella del Serci e gli rifilò due colpi sulle spalle. Quest'ultimo, indispettito dall'affronto subito, estrasse un coltello e con un improvviso fendente ferì il rivale al sopracciglio sinistro. Alle grida del Piga, che nel frattempo aveva afferrato il Serci affinché non se ne andasse impunito, accorsero i barracelli Salvatore Farris, Efisio Murroni, Sisinnio Carta e Giuseppe Carta, che furono invitati a trattenere l'aggressore. Ma questi, malgrado le vive istanze del ferito, con la scusa di non aver assistito al fatto fin dall'inizio, decisero invece di non arrestare il Piga.
Poi, si allontanarono tutti insieme per andare a casa di Giuseppe Carta, il quale, essendo stato nominato anche obriere di San Salvatore, aveva organizzato i balli tradizionali nella propria abitazione. In seguito il Piga ottenne soddisfazione dal Tribunale, che condannò il Serci al carcere e all'indennizzo dei danni da lui causati.
Il giorno vero e proprio della festa, invece, le donne di buon mattino spazzavano e innaffiavano di nuovo la piazza e poi, la cospargevano di petali, foglie ed erbe profumate (s'arramadura), unitamente alle strade in cui doveva passare la processione. Verso le dieci il corteo religioso con la confraternita si muoveva dalla chiesa Parrocchiale per andare a prendere San Salvatore dalla sua chiesa, per poi portarlo in quella di San Giorgio, dove veniva celebrata la messa cantata in suo onore. Durante il rito, al momento dell'elevazione, gli artificieri sparavano la mina in piazza di chiesa in segno di devozione. Finita la messa, il Santo veniva riportato, sempre in processione, nella sua chiesa di pertinenza e quindi, coloro che avevano ricevuto una grazia deponevano ai suoi piedi i mazzetti di fiori preparati dalle ragazze, in segno di gratitudine.
Subito dopo pranzo i giovani si radunavano ancora in piazza per dare inizio al ballo tondo, vero e proprio divertimento dei nostri avi, che a Sestu si è protratto ininterrottamente fino ai primi decenni del Novecento. Infatti, verso gli anni Venti era ancora possibile ascoltare i virtuosismi sonori di tziu Pasqualiu Serra, che con le sue launeddas e il suo abbigliamento típico a cratzonis de arroda, accompagnava i giovani che ballavano proprio di fronte alla chiesa di San Salvatore.
Un'altra importante attrazione della festa erano le corse dei cavalli berberi e dei puledri, che di solito si svolgevano nell'aia di Marginarbu. Queste manifestazioni erano seguite con molta passione dai sestesi e anche da tanti forestieri, che venivano appositamente dai paesi vicini per vederle, perché le corse rappresentavano la massima espressione di coraggio dei cavalieri, ma anche di onore e devozione al Santo. Al riguardo si pensi che il Comune nell'Ottocento (e ancora prima dello scoppio della Grande Guerra) sovvenzionava con il bilancio comunale le corse dei cavalli, sia per San Salvatore che per Sant'Antonio da Padova.
Nel 1863 e nel 1873, ad esempio, il Comune stanzio 150 lire per lo svolgimento delle corse dei cavalli per entrambe le feste. Ma nel 1891 la spesa per questo svago, in contrapposizione a quanto venne programmato nei bilanci precedenti, diminuì da 300 a 100 lire.
Questa scelta generò un'accesa contestazione in Consiglio Comunale da parte di alcuni consiglieri, i quali evidenziarono che la predetta cifra di 100 lire [...] era troppo esigua perche lo stanziamento serviva a far fronte, non solo alle feste dello Statuto, ma anche a quelle di Sant'Antonio e San Salvatore, per le quali in occasione delle corse dei cavalli berberi, aveva luogo da lungo tempo, un gran concorso di gente dai Comuni limitrofi che attivavano il commercio locale, del cui incremento il Comune non poteva disinteressarsi.
Alla fine questa polemica ottenne un buon risultato perché nel 1892 la Giunta Comunale deliberò, come già fatto in passato, il pagamento di 150 lire per i premi dei cavalli per San Salvatore.
Per quanto riguarda i piazzamenti nelle gare, invece, i risultati furono i seguenti: per la corsa dei berberi il 1° premio di lire 35 andò al cavallo di Nicolino Marongiu di San Sperate; il 2° premio di lire 32 andò al cavallo di Antonio Forcolo di Monserrato; il 3° premio di lire 30 l'ottenne il berbero di Efisio Argiolas, sempre di Monserrato. Nella corsa dei puledri il 1° premio di lire 20 andò al cavallo di Cesare Todde di Pirri; il 2° premio di lire 16 a quello di Filippo Serreli pure di Piri; mentre il 3° premio di lire 12 l'ottenne il cavallo di Enrichetto Angioni di Sicci San Biagio.
Infine, alle due guide (is ponidoris) Raffaele Arba e Giovanni Bullita di Sestu, che avevano il compito di regolare l'andamento generale delle corse per conto dell'autorità municipale, andò un compenso di 5 lire a persona.
Come si desume ancora dalle delibere della Giunta Municipale lo stanziamento di 150 lire da parte del Comune, per consentire il regolare svolgimento delle corse, continuò anche negli anni successivi. In occasione della festa del 1897, però, si svolse solo la prima corsa dei cavalli berberi, con una spesa complessiva di 102 lire, mentre l'altra corsa in programma venne rinviata alla seconda domenica di settembre perché il numero dei puledri partecipanti fu inferiore rispetto a quello previsto dal regolamento di gara.
Dal 1904 fino al 1913 gli stanziamenti comunali per le corse di San Salvatore diminuirono prima a 140 lire e poi, con l'inizio della prima Guerra Mondiale, si estinsero completamente. Nonostante tutto però, le corse dei cavalli continuarono a svolgersi anche in seguito con le sovvenzioni dei privati e soprattutto, dei comitati organizzatori della festa.
In occasione delle corse, tuttavia, non mancavano nemmeno le contestazioni e gli incidenti, così come accaddero in occasione dei festeggiamenti del 1864 e 1893.
In merito alla passione che sorgeva intorno alle corse dei cavalli ci sembra molto significativo quanto accadde durante la festa del 1864, quando si verificò un'oltraggiosa contestazione nei confronti dell'allora Sindaco di Sestu Valeriano Ortu da parte di un folto gruppo di persone, che, nella serata del 7 agosto, si recarono presso la sua abitazione con contegno minaccioso, pretendendo di far correre i Cavalli Berberi quella stessa sera, contro le prescrizioni che il Primo Cittadino aveva emanato e fatto affiggere pubblicamente la mattina del suddetto giorno per regolare le corse.
Nella serata del 7 agosto, infatti, era prevista la tradizionale corsa dei cavalli che abitualmente si faceva per la festa di San Salvatore e perciò, il Sindaco in mattinata aveva fatto pubblicare un apposito manifesto, che prescriveva le cautele da osservarsi nell'interesse della sicurezza pubblica durante lo svolgimento delle corse. In questo cartello, di fatto, veniva specificato chiaramente che [...] i cavalli berberi che devono partecipare alla corsa del giorno d'oggi, dovranno essere denunciati al Sindaco prima di mezzogiorno. L'arringo o carriera è la solita praticatasi nelli anni precedenti. La mossa della prima corsa non potrà ritardarsi oltre le ore sei; quello della seconda ossia dei polledri dovrà eseguirsi prima del tramonto del sole. Il numero de' concorrenti alla prima corsa non è ammesso sotto il cinque; quello della seconda sotto il quattro. Il premio è fissato in franchi novantacinque per la prima corsa; in franchi trenta per la seconda. Non si avrà diritto al premio, se non sono state osservate le precedenti prescrizioni.
In realtà, come da tradizione, la corsa doveva svolgersi la sera del 6 agosto, ma il Sindaco, previa consultazione con la Giunta Municipale, la fece trasferire alla sera del giorno dopo per dare una giornata di lavoro in più alla popolazione impegnata nelle aie, ma anche per avere un maggiore concorso di pubblico, in quanto il 7 agosto era festivo per tutti. Cosicché la mattina del 7 agosto firmò il manifesto e lo fece appendere ovunque, compresi i muri della chiesa di San Salvatore.
Tutto sembrava procedere regolarmente e infatti, all'ora stabilita si presentarono i proprietari dei cavalli per denunciarli. Complessivamente ne vennero registrati sei, di cui: quattro di fuori e due di Sestu e così facendo restarono intesi per la corsa della sera. Durante lo svolgimento, però, la gara fu sconcertata dal fatto che tre dei sei cavalli si mossero prima che su Cuaddu de Punta, cioè il capo corsa, desse il segnale convenuto per la partenza. Motivo per cui, gli altri tre rimasero fermi e quindi, per evitare dispute si decise di sospendere la gara. Alcuni spettatori presenti, invece, arrogandosi un diritto che non era di loro competenza, cercarono di obbligare i cavalli rimasti fermi a correre ad ogni costo, turbando cosi l'ordine e la tranquillità, perché la maggioranza del paese propendeva per la sospensione della corsa, in linea con le prescrizioni contenute nel manifesto.
Non contenti di questa scelta un gruppo di circa cinquanta individui, molti dei quali armati di grossi bastoni, si recarono come anzidetto a casa del Sindaco Ortu, il quale avvisato del pericolo si presentò ai facinorosi in fascia tricolore chiedendo loro cosa stesse succedendo.
Tra questi c'erano i fratelli Giuseppe Antonio, Salvatore e Vincenzo Usai, Simone Corda e Sisinnio Pitzanti, i quali con tono minaccioso chiesero al Sindaco di far correre i cavalli asso-lutamente, perché la corsa era stata sospesa a causa del manifesto che lui aveva fatto affiggere.
Il Sindaco, seppure intimorito dai toni, rispose comunque di non poter autorizzare la gara per ragioni di pubblica sicurezza che doveva far rispettare. A questa risposta i principali rappresentanti del gruppo replicarono che loro li avrebbero fatti correre lo stesso, cosi come tentarono di fare. Infatti, andarono a cercare i cavalli presso le abitazioni dei privati e con toni dispotici dissero ai conduttori degli stessi che dovevano correre per forza e così avrebbero ottenuto il premio. Questi, però, si rifiutarono di eseguire la richiesta.
Alla fine per i comportamenti sopra indicati, furono inquisiti i fratelli Usai Giuseppe Antonio, Salvatore e Vincenzo, Corda Simone, Pitzanti Sisinnio, nonché Cannas Angelo, Piga Sebastiano e Caredda Raffaele, i quali furono rinviati a giudizio per oltraggio al Sindaco e per contegno minaccioso in riunione di persone, di numero maggiore di venti e di circa cinquanta.
Così il 26 ottobre del 1864 venne emesso un mandato di cattura per tutti gli accusati, che fu eseguito il 5 dicembre dello stesso anno e portò alla carcerazione delle predette persone nelle Prigioni della Torre degli Elefanti, ad eccezione di Vincenzo Usai che si rese latitante. In seguito, durante il processo che si svolse agli inizi di maggio del 1865, il Pubblico Ministero dichiarò tutti gli imputati colpevoli ad eccezione di Raffaele Caredda e Sebastiano Piga.
In seguito, però, i Giurati si pronunciarono a maggioranza per la non colpevolezza di tutti gli imputati, cosicché la Corte li assolse definitivamente disponendo la scarcerazione e il loro rilascio.
Abbastanza significativo fu anche un altro episodio che si verificò durante i festeggiamenti del 1893. Un certo Efisio Atzori, infatti, venne calpestato dai cavalli, ormai lanciati dai fantini in una corsa sfrenata verso la conquista del premio. Fortunatamente, malgrado il brutto incidente subito, l'uomo se la cavò con pochi giorni di cura, a seguito dei quali si riunise del tutto dall’accaduto. La sorte dell'Atzori era comunque segnata dal destino, perché qualche mese dopo fu travolto dalle acque del Rio Matzeu, che la notte del 29 e 30 novembre inondarono rovinosamente il paese, trascinandolo via dalla sua casa, sita in San Salvatore, per oltre un chilometro fuori dell'abitato. Nonostante il suo miserevole stato, però, il contadino fu tratto in salvo e dopo i medicamenti venne riaffidato ai familiari, che già lo davano per disperso.
Pochi giorni dopo, però, l'Atzori si aggravò e malgrado le cure prestategli, che pareva potessero salvarlo, morì il 2 dicembre del 1893.
A parte questi eventi negativi che potevano verificarsi durante lo svolgimento di questo beneamato passatempo, di solito dopo le corse dei cavalli la gente tornava in piazza per assistere all'attrazione de su pinnìoi (l'albero della cuccagna), che già dal mattino veniva allestito con doni di vario genere e ingrassato a dovere con s'ollu de seu, cioè con un olio ricavato dal grasso bovino.
I giovani che partecipavano a questa gara erano tanti, ma alla fine solo il più tenace riusciva a cogliere i premi della cuccagna, che generalmente venivano consumati da soli, o anche in compagnia.
Cessato questo intrattenimento, la notte si facevano i fuochi d'artificio e la loro conclusione, in un certo qual modo, segnava anche la fine della festa. Malgrado ciò, la maggior parte della gente proseguiva i festeggiamenti con le danze e i canti dialettali, che si protraevano fino a tarda notte accanto alle cosiddette parate, rischiarate dalla tenue luce delle lanterne a petrolio o a carburo.
Terminata del tutto la festa, gli ambulanti smontavano velocemente le loro bancarelle per tornarsene a casa e magari, ricominciare la stessa trafila qualche giorno dopo in un altro paese.
I nostri compaesani, invece, tornavano al duro lavoro e ai problemi quotidiani, derivanti soprattutto dalla povertà e dalle avversità naturali, che tante difficoltà causavano ai contadini e ai pastori dei secoli scorsi, quali ceti portanti e sostanziali della società rurale del passato.
Autore: Roberto Bullita
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